giovedì 18 maggio 2017

Ciao sono BEF e scrivo storie mozzafiato


Ciao sono Bef e scrivo storie mozzafiato...


 Intervista a BEF

Quale modo migliore di una video intervista per capire chi è Bernando Fernández e convincervi che Hielo Negro è davvero una bomba?




Ancora non siete convinti?


Leggete l'estratto qui sotto!



HIELO NEGRO



CAPITOLO 1
Un quarto d’ora prima che la sua testa esplodesse in mille pezzi, la guardia ausiliaria Ceferino Martínez, alias l’Oaxaca finì la sua ultima ronda notturna.
– Due e quattordici, qui è ventisette che parla, sto ritornando – informò la centrale via radio dalla guardiola. Era tutto in ordine.
Si sedette, sciolse il nodo della cravatta e accese la radio sulle frequenze di “Sabrosita”.
Inumidì con la lingua la punta di un Delicado senza filtro, gli piaceva il sapore dolce della carta di riso. Lo prese tra le labbra prima di accenderlo, come vedeva fare dai poliziotti nei film. Aspirò profondamente prima di soffiare una striscia azzurrognola.
Non gli rimaneva che aspettare il cambio di guardia tra un quarto d’ora, a mezzanotte precisa.
Diede un secondo tiro al sigaro. Ad ogni boccata, osservava con attenzione le evoluzioni del fumo. Trovò profondamente sensuali le forme circolari.
Gli ricordavano le natiche di sua moglie.
Ventiquattro ore prima era arrivato al suo turno di guardia ancora agitato dopo aver penetrato Margarita sul tavolo della piccola camera che avevano affittato a Iztapalapa.
La coppia, proveniente dalla costa di Oaxaca, si era stabilita nel pericoloso quartiere della Minerva. Lei lavorava come domestica. Ceferino aveva fatto il giardiniere finché non aveva trovato posto come guardia ausiliaria.
Dopo dieci anni di matrimonio e tre figli, l’Oaxaca continuava a trovare irresistibili le natiche di sua moglie. Trovava affascinante la delicata linea con la quale la sua vita si allargava sui fianchi, quel fondoschiena moro e vellutato che era solito percorrere con la lingua prima di prenderlo a morsi.
Pensava a questo, la guardia, masticando l’ultimo boccone dell’involtino che sua moglie gli aveva servito per cena, mentre lavava i piatti.


La moglie si inclinò sul lavandino per cercare il detersivo quando sentì le mani di suo marito palparla con lentezza.
– I bambini… – mormorò, sapendo già che non sarebbe servito a nulla. In ogni caso i figli avrebbero fatto finta di dormire, impauriti dalla furia del padre.
Ceferino le aveva già alzato la gonna e abbassato le mutande. Margarita sentì subito i dolorosi morsi affondare nella sua carne. Pensò ai segni che di solito le lasciava.
– Pietà – lo pregò. Cosciente dell’inutilità delle sue suppliche, chiuse gli occhi. Sentì la prima spinta.
Ascoltò i gemiti di suo maritò. Strinse le labbra. A Ceferino non piaceva che si lamentasse. In qualche minuto tutto sarebbe finito, rimaneva solamente il dolore. Si rifugiò nell’altra camera, nascondendo le sue lacrime, affogando i suoi singhiozzi. Aveva paura di irritare suo marito.
– E non pensare di andartene, o ti faccio vedere l’inferno – disse Ceferino uscendo, mentre si tirava su i pantaloni.
Ventiquattro ore dopo, ricordandosi questo episodio mentre era in guardiola, ebbe un’erezione. “Aspetta che torno a casa, puttanella”, pensava fumando.
Semianalfabeta, l’Oaxaca presentò un certificato falso comprato in piazza Santo Domingo per cercare lavoro. Quando dovette seguire l’addestramento alla Cancerbero, l’agenzia di vigilanza privata in cui lavorava, gliene importò poco di non aver finito le elementari. Ceferino Martínez aveva sbagliato con il giardinaggio, era un poliziotto nato.
Di poche cose aveva beneficiato tanto quanto imparare a sparare o a maneggiare il randello. Varie volte era rientrato in casa ubriaco dopo aver bevuto con i colleghi finito l’addestramento, per fare pratica con le rinomate tecniche di persuasione e dominazione su Margarita e i bambini.
La cosa migliore era che non lasciavano segni né lividi.
Vigilanza Cancerbero, S.A di C.V., era un’agenzia di vigilanza privata fondata dal generale Díaz Barriga, esperto in sicurezza nazionale e in gruppi di ribelli elitari, morto anni prima in un incidente aereo.
Ora l’azienda era diretta dalla vedova del militare, la signora Conchita, una dolce anziana appassionata di armi da fuoco e tecniche di persuasione.
Ceferino, che iniziò potando il giardino della casa di Polanco dei Díaz Barriga, si era conquistato la simpatia della coppia con il suo sorriso e il suo impegno sul lavoro.
Con gli anni, dopo la morte del generale, l’Oaxaca diventò uno dei favoriti della signora Conchita grazie alla sua voglia di migliorarsi e all’impegno che metteva negli addestramenti.
Nessuno si sorprese quando l’Oaxaca salì rapidamente di grado nella Cancerbero fino a diventare supervisore. Ora era il responsabile del suo turno nella vigilanza dei laboratori medici Cubilsa.
Era un lavoro tranquillo, non si lamentava se non nei giorni come quello, in cui arrivava in laboratorio un carico di pseudo efedrina. Il container veniva scortato da soldati come se si trattasse di una bomba atomica.
Il personale amministrativo, tecnico e di sicurezza dell’impianto doveva firmare in triplice copia la ricezione della sostanza, e poi fare un meticoloso controllo del materiale. 
– Sembra che trasportino coca ‘ste teste di cazzo – diceva l’Oaxaca a voce bassa a Goyito, un compaesano di Cuicatlán che lavorava ai suoi ordini.
– Porca puttana, la usano per lo sciroppo per la tosse – rispondeva Goyo –; me lo ha detto Aidita, una delle chimiche. La biondina.


Ceferino sapeva perfettamente di chi stesse parlando Goyo. Diverse volte aveva chiuso gli occhi mentre sodomizzava sua moglie immaginandosi di penetrare la tecnica di laboratorio.
Il procedimento durò diverse ore di fronte alla noia di tutti i presenti.
Verso le otto circa i soldati se ne andarono. Per le dieci, il laboratorio era vuoto, le due tonnellate della sostanza erano state depositate in magazzino.
Alle undici e trenta, dopo un giro infruttuoso al bagno dovuto alla sua stitichezza cronica, Ceferino fece un ultimo controllo nel laboratorio prima che i suoi colleghi gli dessero il cambio.
Ogni turno comprendeva un’unità di sei uomini che lavorava per ventiquattro ore e si riposavano per altrettante. Un laboratorio piccolo come il Cubilsa non aveva bisogno d’altro.
L’Oaxaca continuò a fumare fino a che il mozzicone gli bruciò le labbra, come quando fumava erba. Non lo faceva da quando la signora Conchita aveva stabilito il controllo antidoping mensile.
Goyo diceva che bevendo due bottiglie grandi di Gatorade azzurro l’esame delle urine diventava negativo. Ma all’Oaxaca, oltre a sembrargli costoso, non piaceva nemmeno quella robaccia. Preferiva trattenersi, non voleva perdere la fiducia della sua capa.
Ciò non gli impediva di portarsi via un paio di chili di roba buona ogni volta che andava al suo paese. Il suo miglior cliente era un collega di un altro turno, uno della Costa Grande che chiamavano l’Acapulquito dalla Costa Grande. “Quanto fuma quel testa di cazzo”, pensò Ceferino, divertito. Non aveva mai visto l’Acapulco risultare positivo all’antidoping. Né bere Gatorade azzurra.
Pestò il mozzicone sotto lo stivale. “Magari morissi”, cantava Pesado per radio.
Cinque minuti prima di morire, Ceferino chiuse gli occhi e pensò a Vanessa, la figlia della padrona di un bordello di Pochutla che lo aveva mandato a fottersi. Canticchiò un rap appassionato a occhi chiusi, ogni parola gli bruciava sulle labbra. Poteva vedere gli occhi neri di Vane sotto le sue ciglia spesse davanti a lui, poteva quasi toccarla.
Il campanello della porta suonò e lo riportò alla realtà.
“Ah cazzo, mancano tre minuti” pensò dopo aver guardato l’ora. Uno dei procedimenti della Cancerbero consisteva nel sincronizzare gli orologi.
Nel monitor l’Acapulquito l’osservava con uno sguardo assente.
– Tre e quattordici – Disse Ceferino allo schermo.
– Sedici – rispose l’Acapulco, come distratto.
– Hai la febbre amico? Chiese l’Oaxaca.
– Ehi– rispose l’amico, senza che Ceferino vedesse muovere le labbra.
– Procedo – avvertì e camminò fino alla porta. Lì, digitò la chiave di sicurezza che apriva le entrate.
– Cazzo Aca, porca puttana. Ti ho già detto di non fumare quando sei in servizio. Se la signora ti scopre ti appende per le palle – disse l’Oaxaca aprendo la porta.
Il guerrerense non rispose.
– E allora?
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Il capo del nuovo turno svenne, Ceferino riuscì appena a schivare il corpo del suo amico. Una volta caduto davanti a lui, scoprì un coltello da macellaio infilzato nel capocollo di Acapulco, lì all’inizio della schiena.
L’Oaxaca non seppe che fare. Soffocò un grido in gola. Tolse la pistola dalla fondina. Avrebbe iniziato a sparare appena avesse alzato lo sguardo se non avesse trovato di fronte a lui un gorilla armato di un fucile.
Il secondo che ci mise a reagire gli costò la vita.
Se avesse avuto più tempo, avrebbe potuto assimilare che ciò che aveva davanti a lui era un uomo travestito da scimmia. Ma in quell’istante di confusione il gorilla alzò la doppia canna del suo fucile Mosseberg all’altezza degli occhi dell’Oaxaca e sparò.
Quando il corpo di Ceferino Martínez cadde per terra di schiena, era già morto. Altrimenti forse avrebbe goduto del modo quasi miracoloso in cui gli spasmi intestinali avevano curato la sua stipsi.
Probabilmente si sarebbe anche divertito a vedere come un commando di uomini travestiti da gorilla entravano nei Laboratori Cubilsa, S. A. di C. V., riducendo in pochi minuti gli altri cinque vigilanti del turno in cadaveri.
Una scena comica, degna di un film.
Vedere le scimmie far entrare un camion e caricare le due tonnellate di pseudo efedrina non avrebbe fatto tanto piacere all’Oaxaca.
Il giorno dopo ci sarebbe stato un gran caos. La signora Conchita l’avrebbe appeso per le palle, come le piaceva dire.
Fortunatamente, era morto.





Ah, quasi dimenticavamo...

Domenica 21 maggio il nostro Fabio Bernabei presenterà Hielo Negro al Rockarolla!



La Redazione






giovedì 13 aprile 2017

Si può dichiarare il proprio amore a un'isola?


Inauguriamo il nostro blog " a porte aperte" con un articolo di Gordiano Lupi, autore, traduttore, blogger (su e per Cuba) e direttore de Il Foglio Letterario.
Gordiano ci parla di Heberto Padilla, uno dei poeti contemporanei cubani più importanti degli ultimi tempi, attraverso la traduzione di un suo scritto postumo ritrovato. Uno scritto decisamente romantico, nostalgico, e anche un po' arrabbiato, dedicato alla sua Cuba.



Calderon, non era questo il mio sogno…

Nella Quinta Avenida il chiaro e tiepido sole di inizio dicembre accentuava il colore degli alberi, del mare calmo e delle rose. La notte precedente era soffiata un po’ d’aria invernale e qualche piccola onda cominciava a superare il muro piatto della banchina dell’Avana, ma oggi la luce era ancora scintillante e calda. Dal marciapiede del Malecón si sentiva il rumore di tutta la città. Mi lasciai trasportare dalla folla in movimento, raggiunsi il parco Maceo e continuai fino all’Avenida del Puerto. Le barche di Casablanca erano decorate con le bandiere rosse e nere del Movimento 26 luglio e nella baia si sentivano intonare canti rivoluzionari, che fino a poco prima si ascoltavano solo clandestinamente. Questa per noi era la libertà. Non sapevamo ancora cosa ci attendeva. Non lo potevamo sapere. Per noi quei barbudos che entravano vincitori all’Avana, spavaldi, intrisi di eroismo, che portavano appiccicato ai vestiti l’odore della polvere da sparo, rappresentavano la libertà e il cambiamento. Ricordo le colombe volare sulle spalle d’un giovane condottiero e lo sguardo fiero d’un argentino al suo fianco. Allora non potevo sapere che il primo era un maestro di suggestive coreografie assetato di potere e il secondo soltanto un’idealista che sarebbe andato a morire su un nuovo campo di battaglia. Era troppo presto.
Sono sempre stato fuori dal gioco, forse è la condizione di poeta che non permette di stare dentro, per noi non è possibile, siamo destinati a raccontare una spiacevole verità in faccia al tiranno. Un poeta è bene non averlo intorno, è un triste personaggio che trova sempre da ridire, che non è mai contento, soprattutto non serve al potere.
Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia, un’isola che fin da bambino ha colpito i miei sensi, mi ha penetrato con il cattivo odore, la puzza di sudore, i ritmi delle percussioni, il frastuono, il gesticolare della gente, le radio a tutto volume e le voci da una finestra all’altra che scambiano commenti e saluti. La mia Avana di periferia, terra di confine tra il mondo che conta e la disillusione, la mia Avana ceduta pezzo dopo pezzo a un’ideologia massacrante che ha distrutto la sua storia. Sono stato parte di quel sogno, ho creduto che potesse cambiare in meglio la nostra vita, mi sono trovato a naufragare tra le speranze, giorno dopo giorno. Non mi sono accorto dei miracoli, ho trascorso intere giornate cavillando, ho sempre trovato qualcosa da obiettare, non mi sono mai prestato al gioco. 



Cuba è la mia terra, la mia isola calda e selvaggia, un’isola che fin da bambino ha colpito i miei sensi, mi ha penetrato con il cattivo odore, la puzza di sudore, i ritmi delle percussioni, il frastuono, il gesticolare della gente, le radio a tutto volume e le voci da una finestra all’altra che scambiano commenti e saluti.


Forse è stato questo il mio errore. Non dare tutto me stesso per sostenere i tempi difficili che attendevano di sconvolgere la nostra storia. Non seguire chi diceva che l’intellettuale nasce con il peccato originale e deve dimostrarsi redento. Non dare ascolto a chi affermava che esistono libri da non scrivere e soprattutto da non pubblicare, perché fanno male al sogno e soltanto dentro la Rivoluzione può esserci libertà, ma per chi si chiama fuori non esistono diritti. Se avessi gettato tutto me stesso nella lotta adesso non avrei eroi da pascolare nei giardini, non mi sarei sentito fuori dal gioco, sarei stato utile alla mia patria e non avrei dovuto dimenticare il sapore del mango colto da una pianta. Non ci sono manghi a New York e neppure avocados. Non vedo palme reali che toccano il cielo e neppure tristi avvoltoi neri che scuotono immense ali dopo giornate di pioggia tra rami di gigantesche ceibas. Non sono mai riuscito a essere ottimista, galante, ubbidiente, misurato, soprattutto non ce l’ho fatta a camminare applaudendo. Non ero adatto a entrare nella nuova società. Non era fatta per un poeta.
“La vita è questo sogno! La vita è questo sogno!” gridavano entusiasti gli uomini in verde olivo. E io mi chiedevo se la vita era davvero questo sogno, pensavo a Calderon de la Barca e mi chiedevo se credesse sul serio che la vita è un sogno, perché i miei giorni erano circondati da incubi. Non sono mai stato capace di essere un eroe, sono soltanto un uomo fatalmente condannato a vivere la mia epoca. Gli eroi non dialogano, ma progettano il futuro con emozione, sono loro che ci guidano senza esitazione tra le braccia del domani e alla fine ci impongono la violenta speranza. Non ho mai voluto far parte di questo gioco, sono un poeta che non accetta l’eroismo, non ho niente a che spartire con quel sentimento, credo che un eroe sia inutile, forse più inutile di un poeta. Disgraziato il paese che ha bisogno di eroi!





Ho sempre vissuto a Cuba anche quando partivo, sentivo il mio cuore ebbro di vento e di fogliame diventare una cosa sola con le caldi notti di agosto, persino nella memoria, persino nel rimpianto, anche quando attraversavo le fredde strade di New York sotto una tormenta di neve. Erano i paesaggi di quel tempo che mi sconvolgevano, si potevano vedere lungo tutta Cuba, verdi, rossi, gialli, screpolandosi con l’acqua e il sole, veri paesaggi di guerra. Il vento strappava i cartelloni della Coca Cola, gli orologi di cortesia Canada Dry si fermavano all’ora vecchia e gli annunci al neon distrutti, crepitavano sotto la pioggia. Uno della Standard Oil Company appariva quasi illeggibile, ma sopra di lui troneggiavano due lettere rozze con le quali qualcuno aveva scritto Patria o Morte
Non accettavo questi simboli di violenza, ma il mio errore fatale è stato quello di scrivere, seguendo il mio istinto di poeta.
Ho finito per risvegliarmi mille volte cercando la casa dove i miei genitori mi proteggevano dal mal tempo, cercando il pozzo nero dove ascoltavo il gracidare delle rane e le falene che il vento faceva volare a ogni istante. Adesso è impossibile tornare bambino e allora non mi resta che gridare in una stanza vuota, perché gli anni sono perduti e non sono capace neppure di cantarli. Sono accadute troppe cose che non ho compreso, sono rimasto il personaggio rancoroso che ero, l’eterno insoddisfatto, l’inutile poeta che dubita di troppe certezze. Mi sono accorto che il mio Paese era governato da un uomo carismatico che cambiava piani e idee ogni volta che pisciava. Ho capito che la situazione non ammetteva possibilità di critica, ma solo accettare tutto con rassegnazione, nel bene e nel male.
Non era questa la mia Rivoluzione.
Caro vecchio Calderon, ammettendo pure che la vita è sogno, non era quello il mio sogno. Era un’utopia imposta che non volevo accettare e che non volevo trasmettere ai miei figli.
Il governo ha commesso errori inquietanti. Aprire le UMAP per rinchiudere omosessuali, preti, santeros, giovani rockettari, antisociali, magari anche qualche poeta, forse le persone meno inquadrabili, non sanno chinare la testa e sono sempre insoddisfatti. Abbiamo creato la Rivoluzione del consenso. Fidel decide e riunisce il popolo per un plebiscito a base di applausi.
No Calderon, scusami. Non era questo il mio sogno.
Il mio sogno era una terra che poteva dirsi libera.
Ricordo che dalla casa dei miei genitori potevo spalancare la finestra e far salire l’odore penetrante del galán de noche che ricopriva il muro di cinta. Vivevo a Miramar e vedevo crescere giorno dopo giorno il degrado del mio quartiere. Case che soffrivano un abbandono decennale, giardini pieni di erbacce, panchine di ferro, rugginose e scassate, terrazze deserte e semidistrutte. Soltanto durante la notte Miramar risorgeva dalle ceneri e tornava all’antico splendore, perché l’oscurità copriva le crepe e la sporcizia. La mia casa andava in rovina, come quelle di tutti, senza rimedio, avrebbe finito per cadermi addosso, pure se mi fossi adattato a vivere in poche stanze.
Gli stranieri cominciavano a venire a Cuba, soprattutto russi e uomini di sinistra, frequentavano l’Hotel Nacional, potevo vederli prendere il sole in piscina quando passeggiavo lungo il Malecón. Gli stranieri provavano un’esaltazione morbosa nell’esporre al sole dei tropici le loro pelli lattiginose, che i lunghi inverni conciano senza pietà. Bastavano poche ore e assumevano la tinta rossiccia delle aragoste del Golfo, gli occhi azzurri scintillavano sopra gli zigomi irritati. Questo era il nostro oro, la sola ricchezza che potevamo regalare a piene mani. Sono stati questi stranieri la nostra rovina, perché venivano a Cuba e approvavano tutto di questa Rivoluzione spontanea. Niente istituzioni burocratiche, partecipazione diretta del popolo alle decisioni, assenza e inutilità di un Parlamento. Non immaginavano che lo Stato andava avanti nel modo peggiore, mascherato in tutte le sue funzioni, agli ordini di un’unica testa autoritaria. Gli europei di sinistra venivano a Cuba e approvavano tutto, ma la cosa assurda era che non avrebbero mai accettato un simile sistema nei loro paesi. Erano ammalati di passione aprioristica, si innamoravano del carisma di un uomo, si fidavano e si lasciavano coinvolgere in un sogno che non era il nostro sogno, ma un sogno imposto da un solo uomo. La Rivoluzione Cubana era una tirannia mascherata da governo popolare, purtroppo. Parlavamo tra amici e ci sconvolgeva che cominciassero a perseguitare le opinioni, che le volessero trasformare in un delitto. I cubani trovano nello spirito, nella presa in giro, l’unico meccanismo di difesa per affrontare le situazioni più drammatiche. Il cubano diventa tragico solo nella pazzia. Il suo unico contatto veramente grave con le cose si verifica nel momento in cui perde la sua identità. In quella situazione rischiavamo molto, perché potevamo non renderci conto del dramma solo rinunciando a pensare. Per me era impossibile. 
Adesso sono in Alabama insieme a mia moglie Belkis, rimpiangiamo la debole pioggerellina dell’inverno indefinito di Cuba, quando sul muro del Malecón si alzano onde enormi e si infrangono sulle scogliere, fino a coprire i giardini circostanti con una cortina d’acqua nebbiosa. Ricordiamo un vento irreale che percuote imposte e finestre, cartelli dei parcheggi, serramenti arrugginiti che scricchiolano, l’acqua che scende sulle auto e si infrange sui parabrezza mentre il sole pare una macchia sbiadita. Nella nebbia del ricordo, la Quinta Avenida coperta e seminascosta dalla cortina d’acqua diventa uno spettacolo indimenticabile, sono come un sogno a occhi aperti gli alberi sempreverdi, d’un verde scuro e splendente, il fogliame abbondante dei rampicanti, le ceibas imponenti, le piccole rane dagli occhi vivaci e sporgenti, i passeri ostinati che si sollevano dall’erba fradicia. Il mar pacífico è sempre stato il fiore preferito di Belkis, che nelle notti cubane assaporava il profumo intenso del galán de noche, inerpicato sul muro della nostra casa, mentre lucertole saltavano tra rami e buganvillee spinose. La nostra casa in rovina, seppellita da erbe e arbusti sarebbe andata ancora più in rovina. La pioggia sottile di dicembre si sarebbe trasformata in grosse gocce, il vento avrebbe cominciato a fare mulinelli, ammucchiando foglie cadute vicino ai tombini in anelli di acqua torbida. Le nostre tempeste del tropico erano solo un triste ricordo, quei piovaschi improvvisi che durano lo spazio di pochi minuti e quei temporali che segnano il limite impreciso delle stagioni. Ricordo con dolore l’immagine della Quinta Avenida immersa in un firmamento confuso, una pianura di vento e acqua, un cielo torbido e senza uccelli, una lamina neutra e spettrale contro la quale si proiettavano pali enormi, divelti dalla furia del vento.
È stato in questo panorama spettrale di un giardino distrutto dai venti che ho visto per l’ultima volta pascolare gli eroi. Eroi perplessi come bambini, subitamente goffi e messi a terra, eroi che si muovevano come spolette, con un rumore di pifferi e di flauti, eroi remotissimi e attuali, che si muovevano come sanguisughe… erano i miei eroi. Pascolavano e divoravano erba e arbusti senza sosta. Uomini, vecchi, donne e bambini, come cannibali del tempo e della storia, divoratori di speranze, energici costruttori di un futuro. Non li ho più visti. Non so che fine abbiano fatto, purtroppo. Si sono persi, credo, perduti nel sogno di un uomo nuovo che non è mai nato.
Sono accadute troppe cose alle quali avevo dovuto adattarmi. Una Rivoluzione non si riduce agli entusiasmi iniziali, ai piani, ai sogni, ai vecchi aneliti di redenzione e di giustizia sociale che si vogliono realizzare. Ha anche il suo lato oscuro, difficile, quasi sporco: repressione, vigilanza poliziesca eccessiva, sospetti, giudizi sommari, fucilazioni. Non potevo accettare che non ci fosse scelta.



 Eroi perplessi come bambini, subitamente goffi e messi a terra, eroi che si muovevano come spolette, con un rumore di pifferi e di flauti, eroi remotissimi e attuali, che si muovevano come sanguisughe… erano i miei eroi. 


Belkis ricorda le nostre piogge tempestose e io l’ascolto sotto la pioggia sottile degli inverni occidentali. La nostra sera d’inverno arrivava quasi all’improvviso, senza darci il tempo di vedere altro che ombre che si muovono intorno, di annusare odori provenienti dai più reconditi cortili. Cade di colpo la sera e ci troviamo nelle tenebre a camminare senza meta, guidati dall’incanto misterioso del calar della sera. Ricordi com’era bello passeggiare sul Malecón? Sì, che lo ricordi Belkis, ma non rispondi, perché non vuoi ammalarti di nostalgia. Il Malecón trasformato in un paesaggio senza colori dalla notte cubana e poi tormentato da un acquazzone tropicale, con la gente che fugge fradicia in cerca di riparo, vestiti attaccati al corpo, capelli che grondano. In quei momenti era bello sedersi in un bar e attendere che spiovesse, osservando ragazzi e ragazze che improvvisavano ritmi cubani, un misto di guaguancó, rumba, mambo, guaracha, bevendo un sorso di rum e accennando le parole d’un vecchio bolero…Non durava molto la pioggia tropicale e allora si ripartiva come due ragazzi innamorati e senza pensieri lungo le strade piene di mandorli e flamboyanes della nostra capitale alla periferia del mondo. Il verde intenso era il colore dominante della nostra vita e spesso mi immaginavo come una farfalla elegante capace di volare di fiore in fiore. Attraversavo il ponte di ferro e osservavo la fine illuminata dell’Almendares che si unisce al Moskvá, canale lercio e nebuloso nel quale scintillano i miei ricordi. Sapevo che L’Avana era nata intorno a questo fiume ed era da là che l’uomo nuovo doveva ricominciare. Non ero preparato a entrare in questo gioco. La mia colpa è stata soltanto quella di scriverlo. Ero un poeta, un personaggio fastidioso da allontanare, non potevo fare diversamente.
Belkis mi parla dei carnevali avaneri durante queste notti sempre uguali, tra grattacieli e fredde strade piene di gente affaccendata che corre da un posto all’altro e pensa alle cose da fare. Ricorda ragazzi e ragazze che entravano e uscivano dai ristoranti improvvisati, soprattutto da La Piragua, traboccante di chilindrón, riso congrís e tamales. Il ghiaccio era tutto nei carnevali, non si trovava ghiaccio in nessun locale avanero, ma solo nei bar lungo il Malecón che servivano birra in grossi bicchieri di cartone paraffinato. Ricordo anch’io lo scintillante scenario del carnevale, gli scogli e le acque della baia che brillavano alla luce dell’imbrunire. Non potrei mai dimenticarlo. Non tanto per i carri decorati che si spostavano dal castello del Morro e invadevano il lungomare, ma per l’allegria della nostra gente che sento perduta per sempre.
Vivere con i ricordi è bello, pare quasi di non invecchiare, ma vivere di ricordi fa morire in fretta di nostalgia. Non voglio che accada. So che tutto questo non esiste più. Se cerco i profumi del mio passato sento giornate intrise dell’aria salsa del tropico, una massa pesante e oleosa che mi riempie i polmoni. Non possono impedirmi di continuare ad amare il mio isolotto caldo e smisurato, ma ho scelto di abbandonarlo, di cancellare un sogno che si era trasformato in un incubo. Un giorno ho deciso che non volevo né comandare né obbedire, ma soltanto fuggire. Colpevole di aver scritto un libro amaro, come amare sono certe verità, ma restano pur sempre verità,  accusato di cospirazione contro lo Stato, di aver sparso nei miei versi il veleno della Cia. Le mie poesie facevano più male di una spada, come aveva detto Heredia anni prima, un poeta è una spina nel fianco del tiranno se decide di essere sincero. Avevano messo in isolamento me e Belkis per troppi anni, anche se non poterono impedire che Fuori del gioco vincesse il premio nazionale di poesia assegnato dall’Uneac. Odiavano gli intellettuali, intrisi del peccato originale, anche se a Cuba non erano in molti e c’era chi diceva che passavano il tempo a cercare le quattro zampe del gatto.
Ho scritto un romanzo incompiuto che è il romanzo della mia vita e quando me ne sono andato dalla mia terra l’ho portato via con me, trattenendo una lacrima mentre dal finestrino di un aereo vedevo allontanarsi sempre di più quella distesa brillante, quella miscela di verde e di luce che nonostante tutto era la mia patria. Tutto quello che mi è rimasto di Cuba l’ho messo nelle pagine dei miei libri. Spero solo che sia abbastanza.

Heberto Padilla
Traduzione di Gordiano Lupi



Non trovate che sia una dichiarazione d'amore stupenda?


Chi era Heberto Padilla?





Heberto Padilla (Pinar del Rio, 1932 - Alabama, 2000) è stato uno dei poeti contemporanei più importanti in lingua castigliana. Nato a Puerta del Golpe, Pinar del Río, Cuba, nel 1932, trascorre la giovinezza nella sua provincia natale, dove compie gli studi secondari, si laurea in giornalismo all’Avana, insegna lingue e letterature in alcune università straniere. Collabora all’organo ufficiale della UNEAC e alla rivista Unión. Dirige CUBARTIMPEX, organismo incaricato di selezionare libri stranieri, e lavora per il Departamento de Extensión de la Universidad de La Habana. All’interno della Rivoluzione Cubana occupa importanti incarichi direttivi, soprattutto nell’area delle relazioni diplomatiche e intrattiene contatti con numerosi intellettuali del mondo. A partire dal 1966 comincia a commentare problemi politici su Juventud Rebelde, il giornale ufficiale della gioventù comunista. Nel 1967 si trova al centro di una polemica ideologica a causa del suo libro Fuera del juego. Nonostante tutto, nel 1968, quel volume ottiene il Premio Nacional de Poesía de la Unión de Escritores y Artistas de Cuba Julián del Casal. La premiazione segna l’inizio delle difficoltà di Padilla, perché il comitato direttivo della UNEAC considera Fuera del juego, un libro critico e polemico, “controrivoluzionario” e ne condanna il “contenuto ideologico”



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